Troneggiava tra i “putiniani d’Italia” la foto di Giorgio Bianchi, storico fotoreporter degli orrori del Donbass ed esponente informativo sulla guerra russo-ucraina che ora viene preso di mira dalle prime pagine. Il motivo? Non un reato né uno scandalo, bensì l’essere anti-governativo sul conflitto: comprensibile che in tempi come questo le cose si confondano fino quasi a combaciare, “ma non mi sento una vittima”, sostiene lui stesso a Palazzo Madama nel corso di una conferenza intitolata “Un progetto per il recupero della sovranità democratica” promossa da Bianca Laura Granato.
Ora però il suo volto è lì, sotto giudizio e vagamente scomodo, tanto da infastidire perfino il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che lo avrebbe recentemente querelato: “Sono uno che quando parla fa male, per questo avete paura di me. Per questo evitate accuratamente di intervistarmi in video. Volete la guerra, che guerra sia. Compilate le vostre liste, querelatemi, mandatemi i Carabinieri a casa. Ogni azione vi si ritorcerà contro“.
Netta e decisa la replica alle pressioni proprio sotto il naso di chi lo mette nel mirino. Nello specifico parliamo di Di Maio, Mario Draghi, il Corriere della Sera e il relativo vicedirettore Fiorenza Sarzanini, quartetto che tra querele e prime pagine ha ingaggiato una vera e propria battaglia alla dialettica di Bianchi & Co., che però hanno fatto e fanno semplicemente il loro lavoro in modo autonomo (non vi sono infatti prove che siano al soldo di Mosca).
Pressioni che calzano con la censura social subita da chi viene accusato di essere “putiniano” senza processo e punito con shadowban di varia natura. Non a caso, secondo Bianchi, il mondo social ha radici nell’ambito bellico e militare; una tesi ripresa da Giulietto Chiesa che oggi riacquista vigore grazie ai recenti sviluppi.
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