Il postulato secondo cui lo sport è cosa altra rispetto alla vita, ha avuto molti volti come antitesi. Uno tra i primi porta un nome che avrete sicuramente sentito: Jesse Owens.
Basta nominarlo e anche chi non abbia la minima idea di cosa sia l’atletica leggera o di cosa voglia dire sfidare una sorte apparentemente troppo più grande di una semplice gara alle Olimpiadi, può pensare a un ragazzo nero esultare sotto una sequela di svastiche.
Perché in fondo è questo il giusto riassunto della storia di Jesse, un ragazzo dell’Alabama proveniente da una famiglia molto povera – come sovente si vedeva nell’epoca della grande depressione americana – che nel 1936 umiliò la più grande minaccia alla democrazia del ventesimo secolo.
La storia vuole che Hitler in persona se ne sia andato dallo stadio, dopo le sue quattro medaglie d’oro, per non stringergli la mano. Questo in realtà non accadde, perché il dolore che quel giovane atleta provocò al Terzo Reich andò ben oltre una mancata stretta di mano: è anche per questo che il suo nome vivrà nei secoli.
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