Si compiace, l’uomo, sfregandosi le mani per la sua onnipotenza; sprezzante, mentre mortifica, senza saperlo, la sua coscienza.
“Come un animale“, diremmo in genere di colui che non sa distinguere il bene dal male.
E’ tempo di rivedere questo detto.
È sempre stato inesatto il paragone dell’uomo con l’animale, ma da due giorni lo è a maggior ragione.
Non ha torto chi dice “chissà quanti soprusi si consumano a telecamere spente“, ma stavolta riteniamoci fortunati che l’elefantessa che portava ancora in grembo il suo cucciolo abbia deciso di affossare, davanti alle telecamere, l’animale responsabile della sua triste notorietà.
Aveva lasciato la sicurezza della foresta per nutrirsi, trovandosi per sua sfortuna in un villaggio. Regno dell’uomo, civiltà dell’orrore.
E pensare che qualcuno credeva ancora, fino a quel momento, che la sicurezza delle case in mattoni e la civiltà umana fossero un luogo di rifugio rispetto alla natura matrigna.
La convinzione è scomparsa non appena se n’è andata lei, l’elefantessa in preda al panico per aver accettato un ananas imbottito di petardi e colmo di incoscienza: badate bene, non incoscienza intesa come ingenuità, ma come assenza di coscienza, mancanza di empatia, privazione di umanità.
Se n’è andata tanto in fretta quanto in punta di piedi, “non sia mai che rovini la casa dei miei ospitanti“, avrà pensato, mentre con la bocca dilaniata portava il suo piccolo al riparo dalla morte.
Non ha scalfito neppure una casa, rotto un vaso, ferito una persona: troppo occupata a pensare al nascituro, come i pachidermi sono soliti fare, talvolta nascondendo i cuccioli persino al padre con un istinto materno più spiccato di qualsiasi altro essere.
Ha ferito certamente anche noi l’altro protagonista, quello rimasto impunito, ignoto, quasi a darci l’identikit di un’esistenza anonima.
Non ci ha ferito solo perché il cucciolo della sfortunata elefantessa è nato senza vita, estratto da una madre morta in piedi, dentro un lago, pensando a lui; e neanche per la nostra empatia, tratto tipicamente umano.
Ci ha ferito perché ci ha fatto vergognare di far parte della sua stessa specie, facendoci rendere conto che pur essendo esseri umani, talvolta possiamo anche non esserlo. Ci ha ferito perché ci ha fatto vedere la parte peggiore di noi, la nostra parte bestiale di cui conoscevamo l’esistenza, ma che non pensavamo potesse arrivare a tanto.
Bisogna però ammettere che forse non pensavamo si potesse provare tanto dolore per una vicenda che materialmente non cambia nulla nella nostra vita.
E’ questo che ci porta alla magra consolazione di questa vicenda: siamo migliori di così proprio perché proviamo questa tristezza, rimpiangiamo con questo rammarico e condanniamo con questa rabbia. Perché in fondo sappiamo che non “meritiamo l’estinzione” come con fare da bar scriviamo sui social.
Ci ha dato una gran lezione, l’elefantessa morta in acqua tentando di soccorrere il suo cucciolo.
Era molto più umana lei, che la bestia suo carnefice.
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