Quando un evento è talmente celebre, più passa il tempo e più vale la pena raccontarlo attraverso le istantanee, le immagini, le vicende microscopiche: cartolina di una cronaca che è già Storia, quella con la maiuscola, nel momento stesso in cui si consuma. Senza saperlo, ignara come ignaro era un anziano calzolaio, anzi un ciabattino, come si diceva all’epoca, rimasto sulla sua sedia di paglia, gli attrezzi in mano, fuori dalla sua bottega. Come se stesse ancora riparando ciò che non c’era più da riparare, perché tutto era volato all’aria, persino i cavalli, ancora attaccati al carro, di un carrettiere, che trasportava chissà quali vettovaglie: forse i sempre più rari e razionati generi alimentari.
19 luglio 1943: se c’era una cosa per la quale i romani, tutti, davano ancora retta a Mussolini, era che Roma non sarebbe stata toccata; che sulla pelle della città del Papa, e del Re, l’idea impalpabile della guerra non sarebbe mai stata scalzata dalla guerra vera e propria: dal fragore, dal fumo, dal turbinio delle grida, del terrore, dalle schegge di esistenze semplici che nessun dio avrebbe più ricomposto.
Lontano il Duce, a Feltre, per confidare a Hitler della marea montante della ovvia sfiducia che percepiva, sempre più vicina, attorno a sé. E anche così nemmeno lui avrebbe mai creduto gli Alleati capaci di un atto di guerra (la guerra, non l’idea della guerra) così sacrilego in senso religioso, storico, simbolico. E invece – Cadevano le bombe come neve, il 19 luglio, a San Lorenzo… – avrebbe cantato qualche decennio dopo un bambino nato otto anni dopo, tale Francesco De Gregori.
Paolo Marcacci
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