I più famosi sono Claudio Gioè de Il capo dei capi e Wagner Moura di Narcos. Le serie TV sui bad-boys realmente esistiti, come Totò Riina e Pablo Escobar, al pubblico italiano piacciono tanto. La scoperta del lato umano dei cattivi si mischia alla curiosità: sono veri i fatti narrati nella finzione? E soprattutto, i protagonisti sono veramente colpevoli?
Accanto ai cattivi storici, poi, spuntano i docufilm su quegli innocenti che il modo ‘estremo’ di fare cronaca ha reso indimenticabili. Persone come Raffaele Sollecito, questa sera su Sky in un documentario. Amanda Knox, che ispira il produttore Danny Strong per la serie di Fox-Crime Provent innocent. O Annamaria Franzoni, primo piano di ogni ricostruzione reperibile sia su Mediaset che su Raiplay.
Che siano innocenti lo dicono le sentenze, ma al pensiero collettivo questo non basta. I loro nomi diventano immortali e altrettanto immortali rimangono i dubbi: saranno davvero innocenti?
Colpevoli che diventano eroi. Innocenti che si porteranno sempre dietro il marchio del dubbio e della ‘probabile’ colpevolezza. Questa percezione, questo ribaltamento, questo modo di recepire la cronaca da parte del pubblico ha delle conseguenze? Ne abbiamo parlato con il Sociologo dei processi culturali e comunicativi, il Professore Davide Bennato.
Le serie TV sono dei laboratori importanti per la narrazione e la costruzione dell’immaginario, quest’ultimo inteso come racconto dell’immaginazione che serve per capire e interpretare il mondo intorno a noi. In questo senso le serie televisive – così come film e documentari – hanno diritto a usare come materiale grezzo la cronaca giornalistica, senza però sostituirsi ad essa quanto piuttosto a dare una prospettiva diversa su una vicenda che ha colpito la fantasia e le emozioni dell’opinione pubblica.
Quando si costruisce un racconto di fantasia a partire da un fatto di cronaca si trasforma la narrazione da materiale giornalistico ad archetipo narrativo. La conseguenza è che tutte le parti in gioco – storia, protagonisti, luoghi – diventano elementi dell’immaginario e assurgono a elementi mitologici (in senso lato). Quindi il buono diventa simbolo del bene, il cattivo simbolo del male e così via dicendo.
Questo può diventare molto delicato quando si raccontano storie usando le tonalità del chiaroscuro, ovvero un buono che ha anche tratti negativi o un cattivo che ha aspetti umani e per certi versi comprensibili per quanto non giustificabili. Ma bisogna ricordare che siamo nel campo della fantasia: non si sta parlando di una persona per quanto esistente o esistita, si sta tratteggiando un personaggio che ha un ruolo all’interno di una storia che comunque resta di fantasia. Altrimenti si sta facendo reportage giornalistico e non narrazione televisiva o cinematografica.
Il problema è che la narrazione dell’immaginario esercita sul pubblico una forza di gran lunga maggiore della realtà cronachistica o giudiziaria. Per questo c’è il rischio che le persone confondano il personaggio della fiction con la persona della vicenda giornalistica. In questo caso è una necessità deontologica del regista e dello sceneggiatore sottolineare con forza il proprio ruolo di professionisti che stanno trasfigurando la realtà per farla diventare qualcos’altro: alcune volte intrattenimento, altre volte arte.
Se c’è un luogo della produzione culturale in cui è negato il diritto all’oblio è sicuramente il mondo digitale per via delle possibilità pressoché infinite dei contenuti digitali di essere archiviati, immagazzinati, indicizzati e conservati. Di contro c’è la possibilità che emergano aspetti diversi dello stesso fenomeno, quindi ad un’impossibilità di dimenticare si aggiunge la necessità della compresenza di innumerevoli racconti dello stesso fenomeno.
Ormai sappiamo che quello all’oblio nel mondo digitale è un diritto che deve essere esercitato perché le tecnologie avendo memoria illimitata sovrappongono i ricordi di cose e persone e tutto ciò ha un impatto notevole sulla nostra identità.
Benedetta Intelisano
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