Turnberry (Scozia), 27 luglio 2025: in un clima teso ma decisivo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen hanno annunciato un accordo commerciale storico che stabilisce tariffe del 15 % sulla maggior parte delle merci europee esportate negli Stati Uniti. Acciaio e alluminio esclusi, rimarranno al 50%.
Ma qual è il vero prezzo?
Trump ha definito il patto “il più grande accordo di sempre” (“the biggest deal ever made”), lodando il carattere vincolante e la rapidità della negoziazione. Von der Leyen ha parlato di un “accordo che offre stabilità e prevedibilità”, sottolineando l’importanza di rimuovere l’incertezza commerciale per imprese e cittadini su entrambe le sponde dell’Atlantico.
L’accordo siglato ha suscitato però forti reazioni contrastanti all’interno dell’Unione Europea, in particolare nei principali paesi esportatori. A tal proposito, il Primo Ministro francese François Bayrou non ha atteso un minuto di più per esprimere il suo dissenso: “È una giornata buia per l’Europa. Questo accordo sbilancia il mercato a favore degli Stati Uniti, soprattutto nei settori strategici dove avremmo dovuto negoziare da una posizione di forza”. Infatti se focalizziamo l’attenzione sul settore agricolo francese, lo stesso è già messo sotto pressione da anni da una concorrenza internazionale. Si teme perciò una progressiva erosione della competitività, soprattutto se l’accordo non includerà misure di salvaguardia. Preoccupazioni sono state espresse anche dai produttori di vino, formaggi e cosmetici di lusso, che rischiano di subire nuove tariffe extra su prodotti premium destinati al mercato USA.
Le preoccupazioni in Germania sono ancora più marcate. La Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI), la potente associazione dell’industria tedesca, ha dichiarato che l’accordo “compromette la leadership dell’Europa nell’export industriale e introduce elementi di distorsione non coerenti con le regole dell’OMC”.
Il settore automobilistico tedesco, in particolare, è tra i più colpiti: le grandi case come Volkswagen, BMW e Mercedes-Benz esportano annualmente miliardi di euro in veicoli verso gli Stati Uniti. L’introduzione di tariffe del 15% su questi prodotti potrebbe erodere margini di profitto o costringere le aziende ad alzare i prezzi finali, penalizzando la domanda. Inoltre i produttori di semiconduttori (come Infineon Technologies) temono che le ‘tariffe specifiche’ sui componenti hi-tech aprano la strada a barriere protezionistiche mirate a vantaggio delle aziende americane e asiatiche.
Anche paesi come l’Italia e la Spagna che esportano beni agricoli, moda, farmaci generici e macchinari, hanno espresso riserve sull’accordo, chiedendo maggiore chiarezza sulle deroghe previste.
Fonti diplomatiche a Bruxelles parlano di un accordo raggiunto sotto pressione, senza un adeguato coinvolgimento dei 27 Stati membri. Alcuni funzionari UE lo hanno definito “più un diktat che una trattativa”.
Ora la palla passa ai Parlamenti nazionali e al Parlamento Europeo, che dovranno ratificare l’accordo per renderlo pienamente operativo. Tuttavia si prevede un iter lungo e potenzialmente conflittuale, soprattutto se le clausole su dazi agricoli e sugli standard ambientali (che potrebbero essere bypassati) verranno confermate. L’accordo USA–UE evita una guerra commerciale, ma potrebbe ridurre l’autonomia economica dell’Europa vincolandola a massicci acquisti di energia, tecnologia e difesa dagli Stati Uniti. Molti analisti lo vedono come una forma di dipendenza strategica. Intanto, Cina e India osservano con attenzione: questo riavvicinamento transatlantico potrebbe cambiare gli equilibri globali, segnando un pericoloso precedente di accordi bilaterali con scarsa trasparenza democratica.
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