Il 29 giugno 2025, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato un decreto che avvia formalmente il ritiro dell’Ucraina dalla Convenzione di Ottawa, il trattato internazionale che vieta l’uso, la produzione, lo stoccaggio e il trasferimento delle mine antiuomo. Un passo che segna una rottura significativa nel consenso globale sul disarmo umanitario. La decisione, annunciata dopo una seduta del Consiglio di Sicurezza e Difesa Nazionale, deve ancora essere approvata dal Parlamento ucraino e notificata ufficialmente alle Nazioni Unite. Solo allora avrà effetto, sei mesi dopo il deposito formale. Fino a quel momento, l’Ucraina resta uno dei 165 Stati parte della Convenzione.
Lanciato nel 1997 e promosso da una forte mobilitazione civile e umanitaria – simbolicamente guidata anche da Lady Diana – il trattato è diventato un punto di riferimento nella lotta contro le armi che colpiscono indistintamente anche dopo la fine dei conflitti. Né gli Stati Uniti, né la Cina, né l’India, né la Russia ne hanno mai fatto parte. Kiev giustifica la mossa come necessaria sul piano militare. “La comunità internazionale deve comprendere – si legge in una nota ufficiale – che la situazione della sicurezza regionale è notevolmente peggiorata da quando l’Ucraina e questi Stati hanno aderito alla Convenzione di Ottawa“. Gli altri Paesi di cui si parla sono: Polonia, Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania, che hanno dichiarato di voler ritirarsi in funzione antirussa.
Tuttavia, le organizzazioni umanitarie avvertono: il ritorno delle mine antiuomo non è solo un rischio tattico, ma un pericolo civile a lungo termine. I residui esplosivi possono rimanere attivi per decenni, minacciando popolazioni ben oltre la fine dei combattimenti.
Il ritiro dell’Ucraina dalla Convenzione di Ottawa è quindi molto più di una mossa tecnica. È un segnale. Un’erosione dell’impegno internazionale verso armi bandite per ragioni etiche, non solo strategiche. Una frattura che riapre un dibattito che sembrava chiuso da una generazione.
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