Oggi sono relatore a un convegno alla Camera dei Deputati, moderato da Alverò, sul tema del Made in Italy. Un tema che considero centrale per il futuro del Paese, e su cui è urgente riportare attenzione e consapevolezza.
Il Made in Italy mi sta a cuore perché, in realtà, abbiamo perso l’industria italiana. Negli ultimi 20-30 anni, forse anche di più, ci siamo convinti — in una logica quasi vetero-coloniale — che fosse giusto delocalizzare le nostre fabbriche e vivere di altro: servizi, turismo, commercio, intelligenze artificiali oggi, umane ieri. È stato un errore storico, profondo. Pensare di poter rinunciare alla produzione industriale ha comportato conseguenze gravi, che oggi paghiamo a caro prezzo.
Lavorando come consulente per aziende di ogni tipo, ho avuto conferma diretta di questa crisi. In una provincia del nord, notoriamente produttiva, un imprenditore mi ha mostrato un volume della Confindustria locale: dieci anni fa c’erano 400 aziende associate, oggi poco più di 200. Abbiamo perso metà del tessuto industriale in una delle zone più ricche del Paese. Questo non è un caso isolato, è un fenomeno diffuso, ma se ne parla troppo poco. Si discute di tanti temi, ma si è smesso di parlare davvero di industria e di Made in Italy.
Certo, si parla di internazionalizzazione, ma solo in chiave di esportazioni. Anche questo è un errore: un sistema economico basato esclusivamente sull’export — come quello imposto dal modello europeo — non può funzionare. Distrugge la domanda interna, come accaduto in Italia negli ultimi 25 anni. Il vero nodo è la disattenzione della politica verso le esigenze della micro, piccola e media impresa, che rappresenta il 95% del nostro tessuto produttivo.
Nel mio intervento cercherò di spostare l’attenzione dai grandi concetti — come ESG (Environment, Social and Governance) o reshoring — verso le necessità quotidiane di chi produce, lavora e crea posti di lavoro. Non è retorica, è la realtà. Gli imprenditori lo sanno bene, tanto che molti si sono disaffezionati alla politica. Esiste un distacco profondo tra chi opera nel mondo produttivo e chi, dentro le istituzioni, legifera premendo bottoni su direttive che arrivano da Bruxelles — e, prima ancora, dai grandi potentati finanziari internazionali. È tempo di restituire voce agli imprenditori, soprattutto ai piccoli e medi. È quello che oggi cerco di fare.
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