Napoli sapeva, anche se non le riusciva di confidarlo neppure a se stessa. Napoli credeva, con un po’ di insolito pudore, in un “prima o poi” in cui i Lazzari felici di Pino Daniele sarebbero scesi in strada per raccontarsi tutto ciò che c’è stato da patire e attraversare nel frattempo.
Agli ultimi giri di lancetta passano e ripassano i fotogrammi di quelle partite in cui tutto sembrava essere naufragato, a cominciare da quel Verona – Napoli 3 – 0 sotto il sole di agosto, oppure quel Napoli – Atalanta 0 – 3 nel cuore dell’autunno.
Proprio mentre dichiarava che la sua squadra non poteva essere attrezzata per lottare contro l’Inter e le altre grandi, Antonio Conte tesseva la tela dell’autostima da infondere a quelli che sarebbero diventati in poco tempo i suoi pretoriani.
Il Tricolore precedente, terzo nella storia del club e primo dell’era contemporanea, come ha detto il condottiero, era arrivato in carrozza, dopo un’attesa snervante, figlia di un dominio annichilente.
Età di un Cristo velato con un drappo tricolore.
Questo scudetto qui, arrivato alla Stazione Centrale dopo un viaggio da pendolare in un vagone di pretendenti accalcati, caldo come le sfogliatelle che vai a prendere lì, a due passi, sempre incerto tra la roccia e la frolla, tra un Inter – Roma 0 – 1 e un pareggio del Genoa al “Maradona“.
Nel grande murale ai Quartieri Spagnoli, Diego ha lo scudetto sulla maglia ma non lo sta festeggiando; continua a correre, come se indicasse una strada da proseguire dopo di lui, per suo conto e in suo nome, a maggior ragione perché non può trovarsi in tribuna e nemmeno in città: ecco che basta palleggiare via una vocale per far posto a un’altra e un’assenza diventa un’essenza.
Paolo Marcacci
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