Poche settimane prima della fine dell’anno 1959, un uomo magro, divenuto nel frattempo ancora più magro, parla dei suoi traguardi venturi: afferma che nel 1960 vorrà correre ancora il Giro delle Fiandre, la Parigi-Roubaix e il Giro d’Italia, prima di diventare produttore di biciclette che siano adatte anche per percorrere strade non asfaltate: praticamente sta inventando la mountain bike con circa tre decenni d’anticipo. Il profilo che guarda al futuro, quello agonisticamente più vicino e quello imprenditoriale, di là da venire, è quello affilato, inconfondibile di Fausto Coppi.
Figlio di coltivatori, Coppi aveva visto la luce quarant’anni prima a Castellania, tra i tralicci e i vitigni della provincia di Alessandria. Nel suo destino, come nelle sue gambe, c’è un sudore differente da quello dei padri: c’è l’Italia del pedale, suggestionata già dal motore ma ancora troppo povera, nonché impoverita da due conflitti mondiali, per potersi permettere di sognarlo come bene di consumo. Da quelle pedivelle Fausto Coppi conquista il mondo, vincendo cinque Giri d’Italia, due Tour de France, tre Milano-Sanremo, una Parigi Roubaix. E ancora tre campionati del mondo, due su pista e uno su strada, quattro titoli italiani, cinque Giri di Lombardia.
Una figura, leggendaria già in vita, con tutte le contraddizioni di cui il suo mito si nutre: in bicicletta è un airone, è timido come un ragazzo di provincia quando gli tocca parlare di sé; è splendido senza perdere i tratti della goffaggine che gli deriva dall’imbarazzo del suo modo di essere; è invincibile fino alla fine, quando uno schiaffo del destino lo scopre fragile. Ha scritto qualcuno che Coppi è stato mortale a quarant’anni, immortale a cento: è un bel modo per dire che il Campione, con la maiuscola, sopravvive all’uomo la cui biografia viene spezzata da uno sgambetto del destino, che nel suo caso assume il volto beffardo di una mancata vaccinazione contro la malaria, prima di un viaggio in Alto Volta, Africa.
Il 2 gennaio del 1960 Fausto Coppi vola via, con tutti i traguardi che ancora aveva in testa, e nel cuore infaticabile.
Sgomenti, i bambini dell’epoca, avrebbero continuato a chiedersi per tutta la vita se arrivasse il pianto dei tifosi, così come da queste parti arrivava il clamore per le vittorie, in quel posto segreto dove vanno ad addormentarsi gli eroi.
Paolo Marcacci
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