Gli umori, o se preferite i malumori sedimentati nel tempo, quando deflagrano in uno stadio non ha senso criticarli. Si può fare, come peraltro ieri abbiamo fatto sulle frequenze di Radio Radio durante Roma – Napoli, ma è un puro esercizio dialettico. Anche velleitario, se volete.
Ovviamente, questo discorso riguarda avversioni calcistiche e avversari indigesti, non questioni di razzismo o odio politico che invece vanno stigmatizzate a ogni piè sospinto.
Alla maggior parte del pubblico della Roma non è passata, nei confronti di Luciano Spalletti. Probabilmente non passerà mai, anzi forse solo in un caso, come mera provocazione: se tornasse un giorno a essere l’allenatore della Roma. Ciò che è accaduto ieri, ampiamente prevedibile, esaltato anche dalla gestualità plateale del tecnico del Napoli, dimostra che a nulla serve mettere sul tavolo della discussione due argomenti che hanno (avrebbero?) valore indiscutibile: le sue due Roma sono state entrambe fortissime e la prima anche spettacolare; è l’ultimo ad aver portato titoli in bacheca (avercele avute, in questi tredici anni, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana). Dobbiamo anche aggiungere che parliamo di maggioranza e non di unanimità, ma il risultato non cambia: ciò che accadde con Totti per i romanisti merita ancora l’inferno, non un purgatorio con possibilità di espiazione.
Detto ciò, volendo riaprire quella questione fastidiosa (con o senza fiction), Spalletti in un certo senso fece male a se stesso, oltre che ai sentimenti dei romanisti: doveva gestire un Totti che aveva nelle gambe dei degnissimi spezzoni di partita, non emarginarlo dando corpo alle grossolane mancanze di rispetto di Pallotta e dei suoi cortigiani. Avrebbe lasciato una tifoseria grata per ciò che l’allenatore Spalletti aveva fatto vedere e vincere; non un pubblico avvelenato verso ciò che l’uomo si era piegato a mostrare di sé.
Prof. Paolo Marcacci
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