Esiste una schiera di sociologi e, in senso lato, di osservatori del costume, mai entrati in uno stadio e propensi a credere nell’avvento di una società perfetta, che invocano per il calcio un tipo di pubblico propenso solo all’incitamento e al riconoscimento del valore dell’avversario. Questi fanno bei danni, quasi quanto i delinquenti e i razzisti; perché i delinquenti pretendono di imporre la loro sola visione del mondo, i sociologi utopisti pretendono invece di spiegare come dovrebbero essere le cose a noi che, nel calcio, le conosciamo dall’interno.
Realisticamente e con un pregiudizio ottimistico, a noi basterebbe che un avversario, – temuto e temibile come era ieri Koulibaly per i beceri razzisti che si annidano nella tifoseria viola – venga chiamato bastardo o anche figlio di puttana indipendentemente dal colore della pelle: sarebbe quello il realistico passo avanti, perché resterebbero inciviltà è maleducazione ma perlomeno saremmo oltre la discriminazione razziale. Poi, potremmo pensare a quella territoriale, odiosa non solo quando si parla di Vesuvio e fuoco, tra l’altro, ma anche quando i milanesi vanno appesi o sono puttane le romane. Scusate la durezza del linguaggio.
Nel frattempo, però, invece di far pagare soltanto le società, che per decenni hanno avuto la colpa di una silenziosa connivenza e della minimizzazione di questi episodi (salvo quando capitano a un loro giocatore), cominciamo a colpire, ma sul serio, coloro che vengono identificati. Con inflessibilità e facendoli piangere anche attraverso il portafogli. Come avviene in Inghilterra, dove non è che manchino i teppisti o i razzisti, ma funzionano le leggi. Tutto qua.
Paolo Marcacci
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