Chiedi a chiunque cosa stava facendo il giorno in cui morì Ayrton Senna: tutti saranno in grado di rispondere” – (Lucio Dalla)

Ventinove anni fa. O, forse, un solo giorno: come se il tempo per certe vicende non trascorresse; come se certe sensazioni fossero destinate a non trascorrere. Perché? Perché come esistono i luoghi dell’anima, allo stesso modo esistono i campioni dell’anima, quelli che non abitano soltanto nei ricordi degli appassionati ma anche nelle sensazioni, nitide come all’epoca in cui le hanno fatte provare, che restano immutate. Non occorre che li susciti la memoria, quindi; basta accarezzare l’emozione, subito cristallizzata e rimasta uguale a se stessa: per un gesto tecnico, un record, un gol. Un sorpasso.

Un sorpasso impossibile magari, uno di quelli che per portarlo a termine il musetto della macchina deve infrangere ciò che per gli altri rappresenta la soglia ultima delle possibilità. È in quel punto esatto che abitava e continuerà ad abitare Ayrton Senna, campione epocale, non campione e basta.

I campioni epocali sono quelli il cui nome riconduce alla ristrettissima élite di coloro che non si sono limitati a segnare un’epoca, ma hanno “costretto” milioni di persone ad appassionarsi a uno sport che non avevano mai seguito prima, che sarebbero tornati a non seguire una volta uscito di scena il fuoriclasse che ha fatto sbocciare la passione. Come Valentino Rossi nel motociclismo, come fu per Alberto Tomba nello sci o, andando ancora più a ritroso nel tempo, come nel caso in cui per gli incontri di Muhammad Ali si svegliava nel cuore della notte anche chi non aveva mai visto un match per intero fino a quel momento.

All’inizio del Campionato del mondo di Formula Uno del 1994, Ayrton Senna viveva egli stesso un passaggio epocale: approdato alla Williams, fino a quel momento scuderia perfetta e imbattibile, si era scoperto ancora più solo, pur essendo stato da sempre un solitario. Non aveva più il nemico del cuore: Alain Prost aveva detto basta, dopo quattro titoli mondiali. Con chi avrebbe potuto, ora, iniziare a interfacciarsi? Per quanto tempo ancora, poi? Forse Senna non lo ammetteva nemmeno con se stesso, ma in fondo sapeva, perché il campione lo sa sempre, che alle sue spalle, senza timori reverenziali, era sorto il pilota del futuro, calpestando a furia di staccate il suo presente: Michael Schumacher era già una realtà, altrimenti non lo avrebbe affrontato così platealmente già al Gran Premio di Francia del 1992. Nel branco ci si fiuta, riconoscendosi a vicenda.

E il Primo Maggio del 1994 cominciava il suo mondiale, dopo due gran premi a zero punti. Pole position, col tedesco accanto, sotto un sole che sembrava già giugno, ma listato a lutto per un sabato maledetto. Si chiamava Roland Ratzenberger, era appena arrivato; il tempo di una stretta di mano con quell’austriaco dai capelli neri, dal sorriso franco. La Simtek si era sbriciolata in un angolo delle inquadrature, sulla destra dei teleschermi, con le telecamere non ancora del tutto posizionate. Poi le gambe scoperte del pilota, il casco piegato di lato, accento circonflesso di un dolore incredulo. La Formula Uno tornava ad aver paura; il campione si era imposto di piangere, in un angolo nascosto del suo box, appena saputo il bollettino medico dall’ospedale di Bologna. Era la sua catarsi di quel giorno da rimuovere, da far poi svanire dentro l’abitacolo della Williams nel quale era stata modificata la posizione di guida, dopo le sue pressanti richieste. E ora il volante era inclinato come lo voleva lui. Come avevano fatto?

Non correre domani; piantiamola qui e andiamocene a pescare, hai già vinto tre titoli mondiali” gli aveva detto Sid Watkins, il dottore dei gran premi. 

Devo continuare Sid, non possiamo controllare tutto” aveva risposto Senna. 

Quello può farlo solo Dio, in effetti. Lui ci dialogava, sempre, anche mentre fissava le luci del semaforo, prima del via. La mattina, prima dei gran premi, apriva la Bibbia per leggere un passo a caso. Erano i suggerimenti di Dio, che lui riusciva sempre a tradurre. Quella domenica restò interdetto, prima di rasserenarsi; aveva letto che Dio gli avrebbe fatto il dono più grande: Dio stesso.

Paolo Marcacci