La chiameremo Stefania, lavora come infermiera a Roma, al “Bambino Gesù” e da quando tutto quello che stiamo vivendo è cominciato, lei e i suoi colleghi lo vivono e lo subiscono in maniera duplice: prima come operatori sanitari e poi come individui; l’ordine è questo e dà la misura della loro abnegazione.
“Io sto al “Dipartimento immagini”, dove ci si occupa di prime diagnosi ed esami strumentali. Quindi ho potuto registrare una tendenza sempre crescente, fino a ora, per quanto riguarda gli accessi di persone soprattutto paucisintomatiche, ossia con sintomi blandi e generici. In effetti poi un 40% circa di loro è risultato contagiato”.
“Devo dire di sì, nella maggior parte dei casi. Si rivolgono ai canali istituzionali, telefonicamente e si attengono alle regole. Poi c’è sempre chi va nel panico, ma non ne farei una colpa…”.
“Proprio no. Anche comprensibilmente, da un certo punto di vista; l’infettività è stata sottovalutata all’inizio anche nel nostro ambiente. Non avevamo ancora valutato la portata di due aspetti del virus: la facilità di trasmissione e i molti asintomatici. Tra l’altro, su una ventina di operatori infettati, la stragrande maggioranza sono medici, questo perché all’inizio qualche dottore ha fatto un poco il “fenomeno”, nel senso che non ha secondo me adottato le cautele del caso. Per “sentito dire” ho anche saputo di visite a domicilio effettuate anche e soprattutto in via amichevole senza alcuna protezione. Questo all’inizio, fino a che la Direzione sanitaria non ha attivato il responsabile di Medicina del lavoro per indicarci le prescrizioni di sicurezza che dobbiamo adottare”.
“Da noi i pazienti con Covid19 vengono trasferiti a Palidoro, dove è stato allestito un reparto dedicato. Mi è rimasta impressa la situazione di due bimbi che all’inizio sembravano rispondere benissimo a un trattamento “normale” ma che poche ore dopo abbiamo dovuto mettere in terapia intensiva. Per fortuna ora tutto ok. Tra l’altro, di bimbi ne abbiamo otto attualmente, insieme a otto genitori”.
“Ho e abbiamo paura perché siamo donne e uomini con familiari di varie età a casa; conviviamo con l’angoscia di esaminare e riesaminare ogni giorno i nostri comportamenti, l’osservazione e il rispetto di ogni regola, per riflettere su tutte le cautele da adottare. Poi c’è una paura indotta dagli altri, da tanti altri: perdonami ma mi incazzo quando vedo gente, secondo me ancora troppa, che è ignorante, nel senso letterale, perché vuole ignorare le disposizioni che ormai tutti dovrebbero conoscere, a partire dall’utilizzo delle mascherine e dai lavaggi delle mani che devono essere frequentissimi. Un po’ di italiani secondo me apprendono le regole, ma poi tendono sempre o a interpretarle o ad aggirarle. La socialità manca a tutti, anche a noi infermieri e medici, siamo cittadini pure noi. Ma non può essere più una scusante”.
“Premessa: la maggior parte di noi concepisce questa professione come una professione umanitaria, se mi passi il termine. Tutti quelli che conosco hanno scelto per passione questo lavoro. È il motivo per cui la stanchezza fisica ancora non presenta il conto, per merito della carica di adrenalina che continua a supportarci. Temo molto di più la frustrazione, una frustrazione indotta, come ti dicevo, dal timore che i nostri sforzi, le nostre notti in bianco, le pause per dormire in corsia venti minuti possano essere vanificati dai comportamenti di chi si ostina a non voler seguire le regole, ignorando il fatto che poi saremmo tutti a rimetterci”.
Paolo Marcacci
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